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Cosa accadrebbe se lasciassimo i bambini e le bambine apprendere…?
- 18 Aprile 2023
- Pubblicato da: Accademia
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Cosa succerebbe se lasciassimo i bambini e le bambine apprendere....?
Articolo scritto da Carlos Calvo, professore di Pedagogia alla Universidad La Serena in Cile e discepolo di Paulo Freire.
Come se…
Quando un bambino conosce qualcosa, non si chiede se può conoscerlo o se è un soggetto conoscente di fronte a un oggetto a lui sconosciuto. Mentre lo osserviamo possiamo sicuramente vederlo stupito o indifferente; sorridente, triste, addolorato o vigile; correre o strisciare per terra; rilassato, dissipato o concentrato – secondo Osho in momenti come questi il bambino sta meditando-; al di là di quello che sta facendo, ciò è che è che chiaro è che impara costantemente. Lo fa in modo giocoso, apparentemente senza sforzo; lo fa ovunque e i suoi tempi di attenzione sono brevi, ma frequenti e costanti; non sembra seguire una sequenza coerente, piuttosto salta da un argomento all’altro come se non prestasse attenzione a niente e a nessuno; tuttavia, c’è un momento che ci coglie di sorpresa una sua opinione o riflessione che sembra apparire dal nulla circa una conclusione che trae.
Impara senza proporselo, come se non si sforzasse, passando da un argomento all’altro. Quando un problema lo travolge, lo mette da parte per dedicarsi ad altro, come se non gli importasse. In quel momento, che chiamiamo indifferenza epistemologica, sembra che non sia più interessato e che se ne sia dimenticato, invece poco tempo dopo – magari minuti o settimane – ritorna con una risposta, come se il tempo non fosse passato.
Congetture e il “cigno nero”
Ipotizziamo che questo processo corrisponda a una strategia non riflessiva, ma altamente efficiente, attraverso la quale il bambino relega nell’inconscio ciò che non può risolvere in quel momento, così da lasciargli il compito di trovare o creare le nuove relazioni, che muoveranno nel campo delle possibilità, motivo per cui saranno sempre precarie e provvisorie, fino a trovare quella che ritiene più opportuna. Userà questa strategia ogni volta che in contesti informali non sa qualcosa o non può risolvere un problema o quando un gioco supera le sue capacità. La risposta provvisoria emergerà dal profondo dell’inconscio come una scintilla intuitiva che innescherà la ripartenza del ciclo cognitivo. Mostrerà questa astuzia anche in contesti scolastici formali, anche se sarà quasi sempre interrotto da educatori che non gli daranno il tempo di aspettare la scintilla creativa, l’intuizione sorprendente (Gladwell, 2005) o l’insight illuminante (Lehrer, 2009), rimproverandolo invece per non essere concentrato, per essere distratto o pigro. Così facendo, si mutila gravemente lo studente:
[…] la capacità di prendere decisioni in modo intuitivo aumenta con l’età. L’intuizione è spesso ritenuta l’antitesi del processo decisionale analitico, in quanto intrinsecamente non analitica o pre-analitica. Tuttavia, l’intuizione è in realtà la condensazione di una vasta esperienza analitica ottenuta in precedenza; è un’analisi compressa e cristallizzata. In verità […] il processo decisionale intuitivo è post-analitico, non pre-analitico o non-analitico. È il prodotto di processi analitici talmente condensati che la sua struttura interna può apparire oscura anche a chi ne beneficia (Goldberg, 2007: 170).
Quanto imparerebbero i nostri piccoli se invece di chiedere loro di rispondere velocemente, permettessimo loro di pensare con calma. Chiaramente, “pensare con calma” non significa che devono stare lì fermi a rifletterci su, ma che possano continuare a giocare, a rotolarsi sul pavimento o eseguire qualche piroetta. Nel frattempo, l’educatore aspetta con attenzione per fornire aiuto solo in caso il bambino lo richieda. Feuerstein ci avverte che dobbiamo dare allo studente il tempo di apprendere. Il suo motto: “Un attimo, fammi pensare!” è categorico al riguardo (Feuerstein, Rand e Rynders. 1988).
Crediamo che questo processo fluisca facilmente grazie all’opposizione tra gli opposti: comprensione – confusione; conoscenza – ignoranza; ordine – caos; facilità – difficoltà; attraverso un processo che, se non è ludico, scoraggia o inibisce chiunque. È ludico solo se il risultato è sconosciuto, poiché se l’esito è noto in anticipo l’interesse diminuisce o scompare. È lo studente che inizia il gioco; non l’educatore. Questo è un punto cruciale che tocca profondamente il paradigma della scuola, secondo cui è l’insegnante a proporre le sfide. Al contrario, l’evidenza ci mostra che nei contesti informali sono il bambino e la bambina che tendono ad apprendere ciò che interessa loro, necessitano o suscitano la loro curiosità. Desirèe López de Maturana (2013) ha riscontrato come siano i più piccoli a fare proposte e, proprio perché sono loro a farlo seguono con entusiasmo il gioco; se invece è l’adulto a suggerire il compito, lo seguono con poco interesse dal momento che si sentono obbligati.
Durante le ore di ricreazione a scuola, i bambini giocavano alla casa. Una casa che veniva costruita ogni giorno con elementi diversi che trovavano sul posto: stoffe, legno, pneumatici, ecc. Un giorno la porta era di legno, un giorno si entrava dall’alto, un altro di lato, e così il modello della casa era ogni giorno diverso, così come lo era l’architetto e il costruttore. Questo gioco li teneva impegnati durante tutto il periodo del tempo “libero” in cortile o durante la ricreazione.
Gli adulti responsabili – l’educatrice, i tecnici e alcuni genitori – hanno osservato tale situazione e ne hanno fatto oggetto di riunione, giungendo alla conclusione che questi bambini “poveri” hanno costruito la loro casetta con materiali di scarto, perché non ne hanno una ben costruita, e così hanno deciso di raccogliere i soldi per commissionare a un falegname una casa di legno solida, bella e dipinta con colori vivaci.
Una volta installata la nuova casa nel cortile – con grande gioia dei genitori – i bambini l’hanno esplorata per un giorno […] entravano, uscivano, rientravano, come un’attività senza senso. Ciò che è emerso è che non hanno mai più giocato alla casa.
L’entusiasmo alimenta il desiderio di seguire presentimenti che li portano a improvvisare l’esplorazione di varianti impreviste lungo percorsi inediti che ancora non si conformano a schemi di autorganizzazione, ma che andranno via via a formare una sorta di rete con intrecci diversi che la rafforzeranno. Nella tela del ragno “si vede come i diversi nodi siano interconnessi tra loro […] formando l’insieme; e, come […] l’azione di ciascun nodo o parte […] influenza l’intera ragnatela” (Wilches, 2000: 39). Mentre i bambini giocano, testano le inferenze e rafforzano gli apprendimenti. Lo fanno in modo coerente e persistente; arrivano persino a stancare gli altri perseverando più e più volte nella stessa cosa. Continueranno a ripetere la stessa cosa finché non ne saranno soddisfatti. Crediamo che si sentano a proprio agio quando mettono in relazione ciò che hanno appreso in vari modi con conoscenze o abilità precedenti. In altre parole, quello che i bambini e le bambine apprendono informalmente non è tempo perso, ma un’occasione unica per il consolidamento sinergico di nodi e snodi, cosa che normalmente non avviene con l’apprendimento scolastico.
Le reti hanno una naturale tendenza ad organizzarsi attorno ad un’architettura estremamente concentrata in cui alcuni nodi sono altamente connessi tra loro e molto più di altri. Il fatto che la distribuzione di queste connessioni abbia una struttura scalabile ci mostra la proiezione che può acquisire questo apprendimento informale. Le improvvisazioni, casuali per difetto, facilitano la connessione tra i nodi, dato che maggiore è il numero di collegamenti, più il gruppo cresce fino a raggiungere un punto critico, che può corrispondere alla comprensione di una nuova idea o, addirittura, al momento in cui una comunità si identifica come tale (Barabási, 2003: 56-58).
Il gioco infantile, così casuale e apparentemente senza un senso specifico, permette all’ordito della rete di rinvigorire alcuni nodi più di altri, rinforzare gli apprendimenti, proteggere dall’oblio, rafforzarsi di fronte all’incertezza e prevenire l’imprevisto, proprio come nella scienza è nota l’irruzione a sorpresa di ciò che Taleb chiama cigno nero, che colpisce senza pietà le connessioni più deboli.
Un cigno nero “è un evento con i seguenti tre attributi. In primo luogo, è una stranezza in quanto si trova al di fuori del regno delle normali aspettative, perché nulla nel passato può indicare in modo convincente la sua possibilità. In secondo luogo, ha un impatto tremendo. In terzo luogo, nonostante la sua stranezza, la natura umana ci fa inventare spiegazioni della sua esistenza, rendendola spiegabile e prevedibile. […] anche il tanto atteso non-avvenimento è un cigno nero. Osserviamo anche, per simmetria, che il verificarsi di un evento altamente improbabile equivale al non verificarsi di un evento altamente probabile” (Taleb, 2009: 23-24).
Sottigliezze copernicane
Quando il piccolo passa a caso da un soggetto all’altro, cambiando il focus dell’attenzione senza sosta, come un pollo che becca in cerca di vermi, rinforza i nodi, senza nemmeno sospettare l’importanza di ciò che fa. Costruisce inconsapevolmente diversi percorsi alternativi per ricordare e ricreare ciò che ha appreso. Il ricordo o il ricreare non sarà mai uguale all’originale, perché ogni volta ci sarà una piccola differenza che altererà ciò che si vuole ricordare; ci saranno sempre piccole differenze che lo trasformano, il più delle volte, impercettibilmente. Ciò è dovuto a molti fattori che possono variare da cambiamenti di contesto, sottili trasformazioni nell’inflessione della voce, più luce nel paesaggio, qualche distrazione temporanea, un insetto che lampeggia davanti ai suoi occhi, etc. Questi piccoli cambiamenti quasi insignificanti, possono svolgere un ruolo simile a quello della mutazione, che genera diversità biologica, e a quello dei memi (Dawkins, 1999; Fischer, 2009), generatori di cambiamenti culturali grazie alle variazioni prodotte dalle interazioni quotidiane, che alimentano i processi di socializzazione, di inculturazione e, quindi, di educazione, ma non quelli scolarizzati. La “casualità creativa” è evidente sia in fisica che in biologia, dove opera la selezione naturale di Darwin” (Flores, Martínez e Martínez, 2011: 70).
Ogni influenza sottile da sola è insignificante, ma tutte insieme si potenziano. Inoltre, sono così irrilevanti di per sé e causano così tante irregolarità nei loro schemi, che non è nemmeno possibile rintracciarle singolarmente o tracciarle in un grafico in modo convenzionale; tuttavia, la sinergia che generano è straordinaria, ma non prevedibile se non grazie al modello di ordinamento generale che seguono, che oscilla costantemente tra ordine e caos. (Calvo, 2007)
Questi aspetti, apparentemente banali, trascurabili, inconsistenti, assumono un’importanza straordinaria nel processo fortuito che rende conto del momento preciso della scoperta scientifica (Roberts, 1992) e dell’apprendimento significativo, che lo studente esprime con gioiosa ostentazione e che i suoi insegnanti confondono ripetutamente con disturbo. Qualcuno di noi ha mai visto un bambino o una bambina intristirsi quando scopre qualcosa di nuovo? Normalmente reagisce saltando, ridendo e comunicando la loro scoperta. L’osservazione etnografica riporta, più e più volte, l’irrefrenabile euforia di cui godono coloro che fanno una vera scoperta, così come le sfide e le punizioni che ricevono per aver causato disordine. Riteniamo che la ricchezza incomparabile di questi processi educativi risieda nel fatto che sono casuali e disordinati, ma che comunque tendono ad organizzarsi. Il disordine non può essere eliminato, non importa quanti tentativi vengano fatti a scuola, sia che si tratti di punire la distrazione o di coprire le finestre in modo che non guardino fuori, sia che si tratti di mandare fuori dall’aula gli studenti o di chiamare i genitori per avvisarli della cattiva condotta, etc. etc. Se il rumore non può essere eliminato, può solo essere minimizzato, come avviene con altri fenomeni e processi. Queste indispensabili caratteristiche casuali non devono essere confuse con l’assenza di lavoro sistematico che in realtà svolge il bambino in quanto scienziato. A volte la scoperta fortuita si chiama ispirazione. Si dice che a Picasso sia stato chiesto se esistesse l’ispirazione, ed egli ha risposto categoricamente di sì, ma che appare mentre si è impegnati nel fare qualcosa.
Mandelbrot, di fronte all’impossibilità di eliminare la presenza di rumori nelle telefonate, suggerì agli ingegneri che invece di aumentare la potenza del segnale per smorzarli progressivamente, scegliessero un segnale modesto, accettassero l’inevitabilità degli errori e adottassero una strategia di ridondanza per coglierli e correggerli (Gleick, 1988: 98-100).
Data l’onnipresenza del rumore nei processi educativi e l’impossibilità di eliminarlo, occorre indagare la convenienza di considerarlo come elemento favorevole e non di disturbo o inibizione all’apprendimento informale o etno-educativo. Riteniamo che favorisca la propensione ad apprendere e insegnare dell’essere umano, nonché la natura olistica, sinergica e transdisciplinare dei processi educativi. Il rumore darebbe quel tocco in più che permette ai processi educativi di acquisire consistenza, forza e coerenza, dal momento che includerebbero le tensioni e le contraddizioni che la scuola cerca di eliminare. In altre parole, data l’asepsi dei processi scolastici, è difficile che il loro apprendimento attecchisca in profondità (Calvo, 2007)
Le prove accumulate nei documenti di ricerca, insieme a tutto ciò che osserviamo durante la nostra vita quotidiana, suggeriscono che questi processi di apprendimento seguono modelli etno-educativi forgiati da popoli non istruiti, in cui si da tempo al tempo affinché imparino bene in qualunque contesto e momento. I modelli etno-educativi, costruiti e riaffermati nel divenire quotidiano lungo i secoli in luoghi diversi, sopravvivono mimetizzati nei nostri processi educativi, analogamente a come si è gestato il sincretismo religioso, che ha portato molti sacerdoti a presumere di aver evangelizzato le popolazioni indigene, quando molti di loro sono rimasti fedeli alle loro credenze ancestrali, ma le hanno denominate secondo i mandati della chiesa cattolica. I processi etno-educativi si esprimono attraverso il curriculum scolastico occulto. Sebbene non siano accettati nella letteratura professionale, tanto meno riconosciuti come influenza, sono onnipresenti nella scuola; in generale, li conosciamo in modo parziale a causa dell’influenza paradigmatica del modello scolastico che li esclude dall’ostracismo dell’invisibilità e dal disprezzo sociale, come se ciò che hanno appreso mediante essi non fosse importante. Anche il buon senso e il sapere popolare vengono disprezzati. Quanto sono stati denigrati i Maya per il travisamento mediatico che affermava che secondo il loro calendario stesse giungendo la fine del mondo, quando in realtà si riferivano solo alla fine di un ciclo di migliaia di anni! La grande conoscenza astronomica è stata volgarizzata sia dai media che dagli astronomi che, senza aver studiato la cultura Maya, hanno elucubrato basandosi sulla loro straordinaria scienza positivista, ma cieca ad altre considerazioni sulla natura.
Quando si indagano, descrivono e valorizzano questi processi educativi informali lo si fa in termini scolastici e non educativi, cioè applicando i concetti che danno senso alla scuola e all’apprendimento formale, rendendo invisibili i processi educativi informali. Non vengono neanche insegnati a coloro che studiano per diventare insegnanti. Sono pochi coloro che si sono avventurati nei suoi territori remoti e ancora meno hanno provato a realizzare una mappa diversa da quella della scuola. (Calvo, 2012). Ad esempio, non si riconosce quasi mai che il processo educativo si manifesta come un rizoma, essendo una delle sue radici l’improvvisazione permanente e inevitabile, nonché l’incertezza a cui è sottoposto l’educando mentre apprende. Nel processo rizomatico non vi è gerarchia tra i suoi elementi o fattori predominanti di per sé, poiché ognuno viene ridefinito secondo le circostanze e i contesti. Ad esempio, si rimprovera la distrazione ed è molto difficile che si riconosca che è il contesto a favorire l’emergere dell’idea nuova. Se approfondiamo queste idee, avanzeremo nella semplice e profonda descolarizzazione della scuola.
Caos ludico e creativo. Da opposti esclusivi a inclusivi.
I piccoli della nostra ricerca, così come tutti coloro che frequentano la scuola dell’infanzia, interagiscono in un contesto formale, ordinato e pianificato e, allo stesso tempo, in uno informale caotico e casuale. Nonostante la tensione tra i due ambienti sia costante, i piccoli passano dall’uno all’altro senza grossi problemi il più delle volte, soprattutto quando l’adulto non interviene. La frequenza dei richiami di attenzione e delle sfide da parte degli adulti è un chiaro segnale che i processi educativi informali non vengono compresi o valorizzati. Troppo spesso si confonde il caos ludico e creativo generato dalle interazioni quotidiane, dai movimenti bruschi, persino dai colpi occasionali, dalle battute, dalle risate, etc., con indisciplina, che interrompe il normale sviluppo di una lezione, dando così priorità all’adempimento di ciò che è stato pianificato rispetto a ciò che fanno gli alunni. Questo accade sia con i bambini che con gli adolescenti. È importante notare che l’indisciplina, percepita dai docenti, e il caos creativo, che si godono gli alunni, corrispondono allo stesso fenomeno e la differenza sta nell’intenzionalità che gli alunni vi imprimono e nella valutazione che ne fanno i docenti. Per i più piccoli si tratta di un gioco mentre per i docenti di un’alterazione dell’ordine. Se è vero che a volte i bambini possono disturbare intenzionalmente – anche se ciò avviene più frequentemente con gli adolescenti – è anche vero che il disturbo di per sé è minore. Tuttavia, la cultura sanzionatoria per queste manifestazioni di indisciplina è così radicata che di solito si presume che gli alunni disturbino.
Nel corso del 2010 abbiamo realizzato delle osservazioni etnografiche sistematiche in una scuola secondaria di La Serena. Ci interessava osservare il comportamento degli insegnanti in relazione alle possibilità di mediazione emerse durante la lezione. Abbiamo verificato, una volta e decine di volte, come i docenti fossero in genere ciechi e sordi al disordine provocato dagli studenti, limitandosi solo a chiedere loro di tacere o a sfidarli o, più di una volta, ad espellerli dalle classi. Rivedendo le note di campo alla ricerca di schemi che ci illuminassero, abbiamo scoperto che le risposte più frequenti degli insegnanti era il rimprovero, che gli studenti non ascoltavano nemmeno, e la punizione, che poteva essere un’interrogazione o essere cacciati dalla classe. Anzi, per gli studenti, il disordine corrispondeva a una strategia indiretta per attirare l’attenzione dei loro insegnanti affinché li aiutassero ad apprendere. È strano che utilizzino una strategia così opposta al fine previsto, ma questo procedimento è comune negli esseri umani.
Sulla base delle osservazioni sul campo, che vanno avanti già da due anni, possiamo affermare che i piccoli effettivamente alterano l’ordine programmato della lezione con i loro giochi, senza, tuttavia, l’intenzione esplicita di sconvolgerlo, dal momento che quello che vogliono è solo imparare, sia con l’aiuto dell’educatore o da soli tra di loro. Questa affermazione, così semplice e diretta, non viene accettata dagli ambienti scolastici, che sopravvalutano un tipo di apprendimento che fallisce di volta in volta, trattandosi di un apprendimento ordinato, sequenziato, coerente che non corrisponde a ciò che effettivamente accade nei processi di apprendimento del bambino. La sua penetrazione come modello paradigmatico per la comprensione della scuola è così potente che quando i ripetuti fallimenti scolastici vengono esaminati, non vengono messi in discussione, modificati o banditi. Si tratta di presupposti fondanti indiscussi che si rinnovano solo adeguandosi ai tempi, come accade con l’incorporazione delle TIC e della cultura ad esse connessa. Come non menzionare il fatto che le aziende del settore hanno realizzato grandi affari senza che l’auspicato miglioramento della qualità dell’istruzione avesse mostrato segnali di miglioramento significativi!
Basta leggere i verbali che danno conto della SIMCE, PISA, PSU o di qualsiasi altra valutazione a cui sono sottoposti gli scolari. Il minimo che si possa dire è che anche se ci sono “progressi rispetto agli anni precedenti” i suoi risultati sono scoraggianti. Poiché la maggior parte progredisce molto poco, tendono ad incolpare gli studenti, gli insegnanti, il sistema, etc., senza nemmeno chiedersi se forse il problema non sia negli studenti o negli insegnanti, anche se non sono esenti da responsabilità, nemmeno nel sistema, che ha comunque una responsabilità che non può essere ignorata, se non nel modo in cui il processo di insegnamento e apprendimento scolastico è concepito e attuato. Non può essere che quasi tutti in tutto il mondo trovino così difficile imparare, anche le cose più semplici, se siamo dotati di un cervello dalle così capacità straordinarie, di cui gli scienziati non smettono di meravigliarsi.
In generale, la maggior parte dei bambini non mostra seri problemi di apprendimento perché si dedica semplicemente all’apprendimento. Se hanno difficoltà, non si inibiscono e cercano di raggiungerlo in altri modi, mostrando ingegno per trovare il modo migliore per ottimizzare le proprie capacità. I bambini e le bambine sono impegnati nel processo di apprendimento e lo fanno giocando. Giocare è tutto per loro; giocando imparano in modo incerto e casuale, ma imparano in modo sistematico e rigoroso, anche se corrono, se si mettono a testa in giù, se strisciano a terra, se diventano Saetta Mcqueen – quell’auto da corsa antropomorfa del film della Pixar “Cars” – o Spider-Man. Assumono dei ruoli e li cambiano tutto il tempo, sebbene ogni nuovo ruolo implichi dei comportamenti diversi che richiedono flessibilità, abilità cognitive, valutazioni etiche ed estetiche (López de Maturana, Desirèe, 2010), ma tutti con l’intenzione di cercare un senso.
“Matías si mette un cappello, lo abbassa sugli occhi, tenendo gli occhi coperti e comincia a camminare per la stanza dicendo: ‘buh, buh’”. Lo fa per un po’; poi passa a un’altra attività, che sarà breve come la precedente. In questo modo, in un tempo relativamente breve, come l’infanzia, vivrà varie esperienze.
L’educazione impollina come il vento, mentre la scuola è unidirezionale, come nell’agricoltura intensiva.
Giocando non si svolgono somme, ma si costruiscono sinergie, dove il nuovo sarà sempre più della somma delle parti che lo compongono. In altre parole, ogni componente o elemento può essere necessario, ma tutti insieme non bastano a comporre il tutto. In questo processo i piccoli apprendisti fertilizzano il terreno in attesa che qualcuno li aiuti a stabilire relazioni sempre più complesse. La prima collaborazione nei contesti informali è quella tra pari, con i quali si rafforzano e si intrecciano ludicamente in relazioni dinamiche sorprendenti. L’inesperienza dei bambini e delle bambine e la mancanza di conoscenza sono i loro maggiori limiti, ma allo stesso tempo costituiscono la fonte dell’energia che li fa tendere ad apprendere tutto il tempo e in ogni luogo.
Gli adulti possono collaborare a questi processi purché li ascoltino ed entrino nel loro mondo; al contrario, molto spesso l’adulto – sia esso il padre, la madre, il fratello o la sorella, l’educatore o l’educatore o un estraneo – non li ascolta né li osserva, perdendo così infinite possibilità di educare e il bambino di educare sé stesso.
Mediante l’osservazione etnografica, è triste constatare quanto gli insegnanti sprechino, una e mille volte – lasciando i loro alunni e alunne immerse in ambienti di accettazione passiva e non trasformandoli in ambienti attivi e generatori di modifiche – le molteplici opportunità che i bambini regalano loro di diventare mediatori significativi, intenzionali, reciproci e trascendenti. La normatività esagerata che vige nelle scuole cospira affinché gli insegnanti si rifugino nella formalità del processo e si sottomettano all’ordine asettico della pianificazione scolastica elaborata senza considerare le caratteristiche degli educandi. Ciò con il fine di farli muovere per la mappa scolastica e non per il territorio educativo.
Matías rivolgendosi all’educatrice: “Maestra, maestra Antonella ha vomitato!” Isi, Valentina e Benjamín guardano Antonella. Isi con la bocca aperta appoggia le ginocchia sulla sedia e osserva attentamente mentre la portano in bagno.
Benjamin: “forse è stato il latte al cioccolato o i biscotti ad averle fatto male”.
Educatrice: “Guarda un po’, non sapevo di avere un dottore in classe, silenzio!”
Benjamin associa il vomito di Antonella all’assunzione del latte o dei biscotti. Forse ha ragione oppure si sbaglia; tuttavia, ciò non è importante finché non prescriverà una terapia per guarirla. La cosa spiacevole è che l’educatrice non solo prende in giro l’atteggiamento di Benjamin, ma gli chiede anche di stare zitto. Anni dopo ci saranno lamentele tra gli insegnanti, le autorità educative, la stampa e chissà chi altro, sui disastrosi risultati scolastici dei bambini, tra cui Benjamin. Forse sentiremo qualcuno dire qualcosa del tipo: “non hanno imparato a leggere in modo completo, non conoscono le operazioni aritmetiche di base, né conoscono minimamente la storia del Cile o le scienze naturali”. Si giustificheranno sottolineando eufemisticamente che è perché provengono da settori “vulnerabili”, omettendo che erano già stati “vulnerati” da comportamenti come quello descritto. Si proporranno poi misure compensative con l’illusione che portino i loro frutti correggendo i limiti dello studente o, sarebbe meglio dire, gli errori commessi nei suoi confronti.
Piuttosto che lamentarci di questo futuro profetico, possiamo incidere sottilmente sul presente per stimolare la propensione all’apprendimento che caratterizza tutti i bambini e le bambine, indipendentemente da dove sono nati e cresciuti. Cosa accadrebbe se, quando Benjamin diagnostica il malessere della sua compagna di classe, invece di zittirlo ironicamente, l’insegnante gli chiedesse perché secondo lui è stato il latte a far star male la sua compagna e ascolti le sue argomentazioni e quelle degli altri alunni. Quanto potrebbero imparare i bambini di questa modalità se mantenuta nel tempo e ogni volta più specifica e rigorosa? Ad esempio, se il piccolo dottore suggerisse che è perché il latte era andato a male, o perché la ragazza è allergica, o perché l’ha mescolato con i biscotti, o perché dopo averlo bevuto si è messa a testa in giù, etc., etc. Ogni possibile spiegazione può essere confrontata con quella dei suoi compagni; in tal caso, possono scegliere quella più argomentata come la più probabile; successivamente però potrebbero verificare che se si erano sbagliati per non aver considerato altri fattori, come il fatto che la bambina aveva vomitato molto prima di bere il latte e mangiare i biscotti, etc. Non è questo ciò che fanno gli scienziati?
Questo modo di operare così semplice viene dimenticato nelle scuole, dove si continua a sottomettere gli educandi all’apprendimento di risposte chiaramente descritte nei libri di testo, il più delle volte attraverso processi di insegnamento neutri, ripetitivi e decontestualizzati. E quando vengono affrontate delle questioni etiche e politiche, ci si aspetta che siano asettiche, “oggettive”. Il problema sta nell’insegnamento della risposta corretta, ovviamente non perché sia corretta o vera, ma perché l’educando non ha sperimentato il processo di svelamento della sua complessità per comprendere la meravigliosa semplicità che contiene, cosa che accade quando abbiamo compreso qualcosa.
Anche se agli insegnanti viene chiesto o richiesto di contestualizzare i contenuti che insegnano – cosa che la maggioranza fa – non è sufficiente per ottenere un apprendimento di qualità, semplicemente perché la contestualizzazione scolastica non favorisce la propensione all’apprendimento, dato che impone uno stile unico e un ritmo di insegnamento uniforme, unidirezionale e lineare. L’educazione non è ingegneristica, non è lineare, ma diffusa, irregolare, frattale, e ciò genera paura perché si presume che gli studenti non ne saranno interessati, perderanno tempo, non avanzeranno secondo il ritmo scolastico stabilito, verranno bocciati, etc. Tutti questi argomenti sono coerenti con il paradigma che sostiene e guida la scuola, basato sull’idea che il bambino sia pigro per natura, che eviti di impegnarsi, e che non gli piaccia imparare, etc. È uno schema che si nutre dei criteri paradigmatici che si sono imposti nella cultura occidentale, dicotomizzando tra estremi che si escludono a vicenda: comprensione – confusione; semplice – complesso; studioso – pigro, attenzione – distrazione-; oltre a concepire il tempo in termini cronometrici e lo spazio come luogo chiuso. Nelle interazioni non scolastiche che abbiamo indagato, le tensioni tra gli estremi sono inclusive e con confini permeabili, il che rende difficile – se non impossibile – determinare esattamente dove finisce l’uno e inizia l’altro quando e dove inizia l’apprendimento, quando e dove è stata colta una nuova idea e creato un rapporto senza precedenti.
Le conseguenze per la cultura scolastica tradizionale sono tremende, poiché, ad esempio, ci sono momenti in cui la persona che sta studiando una materia inizia a comprenderla ed improvvisamente si confonde; tutto ciò che fino a quel momento gli era chiaro ora gli risulta sfocato. Riteniamo che questa situazione costituisca una condizione necessaria per un apprendimento coerente e profondo; per questo affermiamo che chi non si è confuso durante lo studio non ha imparato bene o, come si usa dire oggi, il suo apprendimento non è di qualità. Ciò accade semplicemente perché quando si mette in relazione ciò che è stato appreso con qualche altra idea, non si trova il modo in cui si complimentano. Per raggiungere questo obiettivo, sono necessari altri studi e più tempo che permetta costruire la complessa rete di schemi necessari per imparare qualcosa di specifico: " La formazione di modelli è un processo lungo e complesso che non dovrebbe essere inteso in termini binari, come una questione di sì o no. Ciò significa che uno schema può essere in parte formato e in parte pronto per essere utilizzato” (Goldberg, 2007: 210). L’esperienza sul campo ci ha mostrato che quando i bambini e le bambine si confondono o non riescono a rispondere prescindono completamente da quello che fino ad allora era il centro del loro interesse e della loro occupazione per dedicarsi ad altro per un periodo, che può essere breve o lungo e che non può essere irrigidito nei termini definiti dalla scuola.
Nonostante questo atteggiamento, è ovvio che una volta chiarita la confusione, ritornino sull’argomento per continuare ad approfondirne la complessità. Basta dare tempo al tempo, proprio come ci hanno insegnato le nostre nonne. Lo stesso – anche se con alcune differenze – si verifica con le conversazioni informali degli adulti, che svolgono lo stesso ruolo dei giochi dei bambini; sono ludici, caotici e in una certa misura imprevedibili. È stato attribuito al fisico Jorge Wagensberg, direttore della Metathemes Collection, che la qualità delle università potrebbe misurarsi in base al numero di mense che possiedono.
Domandare o rispondere? Dilemma o trappola epistemologica?
Distinguiamo categoricamente tra educazione e scolarizzazione. Per ragioni ora irrilevanti da enunciare, la scuola ha finito per monopolizzare i processi educativi e convincere persone di ogni genere che l’educazione e gli apprendimenti importanti si realizzano a scuola. Quelle acquisiti al di fuori di essa vengono sottovalutate o perché non hanno origine nel patrimonio scientifico o perché corrispondono a conoscenze comuni e non sono altro che espressioni di buon senso; vengono anche criticati per il loro basso livello di astrazione, senza rendersi conto che in essi si trova il germe insostituibile della conoscenza e della saggezza future che verranno con gli anni. Inoltre, questo apprendimento non è esclusivo dei bambini, ma di tutte le persone, indipendentemente dall’età, dall’esperienza e dalla formazione.
Nowak e Highfield, ci racconta che il biologo dell’Università del Sussex, Maynard Smith, a cui si attribuisce l’applicazione della teoria dei giochi allo studio della biologia evolutiva, iniziò la sua carriera come ingegnere e lavorò calcolando le forze che agiscono sulle ali degli aerei.
È stato un modo crudele per migliorare la sua matematica, dal momento che è stato costretto a volare con il pilota per testare i nuovi progetti, presumibilmente con l’intenzione che avrebbe imparato in modo naturale e rapido da qualunque suo errore (2012: 175).
Vale la pena chiedersi perché avesse bisogno di queste conoscenze acquisite casualmente se la matematica è intrinsecamente così coerente e ha un livello di astrazione senza pari. Qual è, allora, il valore di quelle esperienze? Ovviamente non si tratta di escludere nessune di esse, ma di integrarle, che è proprio ciò che la scuola non fa, turbando così le condizioni favorevoli per un apprendimento semplice, ma coerente, che coinvolge tutta la persona. L’apprendimento educativo, fuori dalla scuola, aperto alla creazione di relazioni, ci risulta così ordinario perché lo viviamo in ogni momento, ogni giorno e la nostra vita, svegli, assonnati o addormentati. Consultati con il cuscino, è un altro degli insegnamenti che ci hanno lasciato le nostre nonne non scolarizzate, e su cui non focalizziamo la nostra attenzione e valorizziamo.
Non ci stupisce vedere quotidianamente quanto i piccoli apprendono senza grosse difficoltà e quanto siano capaci di stabilire relazioni stupefacenti, non spiegabili in base ai criteri organizzativi dei contenuti curriculari scolastici, poiché tutti richiedono dei prerequisiti causali, e che se non si conoscono non è possibile avanzare. A tal proposito, anche voi ricorderete la continua lamentela dell’insegnante dell’anno successivo, che accusava quello dell’anno precedente per non aver insegnato tutto ciò che è necessario per permettergli di svolgere bene il suo lavoro. È un circolo vizioso in cui ognuno incolpa l’altro: la famiglia viene rimproverata dalla maestra della scuola dell’infanzia che, a sua volta, viene accusata dall’insegnante delle elementari, che viene rimproverata dall’insegnante delle scuole superiori, che, a sua volta, è rimproverato dai professori universitari e questi ancora vengono accusati di non aver formato adeguatamente i futuri insegnanti. Con questa logica tutti sono colpevoli tranne chi accusa. Questo rappresenta un modo sconveniente e non etico per eludere la responsabilità. In questo caso, come in molti altri, non basta avere ragione.
Tuttavia, questa constatazione non è sufficiente per modificare la cultura che sostiene la scuola e che concepisce l’apprendimento come il risultato di un processo ordinato, sequenziale e lineare, in cui il progresso avviene gradualmente secondo criteri che definiscono come avanzare da un livello di complessità all’altro. Ciò significa che un bambino della prima non può apprendere i contenuti della terza perché non ha completato la seconda; tuttavia, sono stato testimone diretto di come un bambino mapuche, che nel 1987 frequentava la prima elementare in una scuola monoclasse vicino a Temuco, spiegasse ai suoi compagni di terza e quarta una materia che non aveva mai studiato formalmente e che si limitava ad ascoltare, il più delle volte con indifferenza, quando il suo insegnante lo spiegava ai suoi compagni di classe, che erano in quinta. Questa esperienza non è eccezionale, ma ricorrente. Per scoprirla basta essere attenti. Alcuni hanno obiettato che i piccoli non spiegano bene, che sbagliano perché mancano di conoscenza.
Chiedo loro se anche loro non mancano di conoscenza e se non gli succede di sbagliare; del resto che senso ha pretendere che un bambino di sei anni spieghi come un professionista? Il bambino dà indizi, suggerisce, indaga, stimola, collabora. È abbastanza. Non importa se lo fa male, perché il suo valore è che aiuta a cercare e non tanto a rispondere. Il bambino e la bambina non esistono per rispondere, ma per chiedere.
Torniamo alla classe, i bambini vanno in bagno con la maestra Blanca, si lavano i denti e le mani. Poi escono a poco a poco.
Leandro esce per primo, mi si avvicina e mi chiede:
“stai scrivendo?”
Io: “Sì!”
Mi guarda, ride, e io gli chiedo: “Leandro, come sono andate le tue vacanze?”
Leandro: “Bene!”
Io: “Hai giocato a palla?”
Leandro: “Sì, ci ho giocato!”
Io: “Oh molto bene!”
Leandro: “E sai quanto abbiamo vinto?”
Io: “No! Dimmi un po’”
Leandro: “Die a zero!”
Io: “Oh davvero, dieci!”
Leandro: “Sì, die!”
Io: “E vuoi fare il calciatore da grande?”
Leandro: “Sì, il calciatore!” Si avvicina al suo posto, si siede.
Leandro: “Sai chi mi ha insegnato?”
Io: “No! Chi?”
Leandro: “Il mio papà, il mio papà mi ha insegnato!”
Io: “Oh, è fantastico, ti ha insegnato fin da piccolino!”
Leandro: “Sì!” Fissa il tavolo per qualche secondo e poi dice: “Non so chi lo ha insegnato a mio papà, forse il papà di mio papà, mio nonno, forse è stato lui ad insegnarglielo”
La relazione che formula contiene due dubbi: “non so chi glielo ha insegnato” e “forse il papà di mio papà”, un’affermazione: “è mio nonno” e una condizione: “forse”, che è un “se” condizionale. La sua argomentazione si muove nel regno delle possibilità, è meramente ipotetica. Ora, se un amichetto propone un’alternativa come “forse è stato un fratello a insegnarglielo”, il processo di apprendimento del bambino si sposta verso ciò che è più probabile che sia accaduto. Ad esempio, potrebbe essere più probabile che sia stato suo padre perché non aveva fratelli o perché sua sorella non giocava a calcio, etc. Quindi, passerà dal probabile al realizzabile, a ciò che è possibile realizzare. Non è forse questo il processo che segue lo sviluppo scientifico e tecnologico? Tuttavia, dedurre che suo padre è stato istruito da suo padre è una buona deduzione. Potremmo anche essere tentati di valutarla come una conclusione corretta; preferiamo però considerarla come una delle tante relazioni possibili che il bambino può formulare tra le innumerevoli, per esempio: che suo padre ha imparato da un amico o che lo ha imparato da solo, etc.
Un altro bambino, Marcos di cinque anni, figlio di uno dei nostri ricercatori, quando ne stava per compiere quattro, ha parla con suo padre per un mese della gestazione del suo fratellino. Suo padre riassume la conversazione come segue:
Non ci credo a questa cosa del seme di cui mi ha parlato mio papà. Ha detto che entra dalla vagina e non credo, perché il foro è molto piccolo. Neanche dalla bocca, perché quello che si mangia si elimina con un colpo, […] e meno per il culo perché di là esce la cacca. Come è riuscito ad entrare allora? (Moreno, 2012).
Il bambino non trova la risposta, nonostante le sue domande. Per la scuola potrebbe voler dire che non ha imparato; potrebbe addirittura prendere un brutto voto o essere bocciato. In termini educativi, al contrario, significa che sta imparando mentre continua a meditare coscientemente, a volte, e il più delle volte, inconsciamente. Il processo consiste in un’intensa e silenziosa indagine su sé stessi durante la quale sonda come possa essere entrato l’essere umano che gli dicono sarà suo fratello. Inconsapevolmente, passa da ciò che è possibile: vagina, buco, bocca, a ciò che è più probabile che accada. Nel mondo andino chiamano questo processo di immersione profonda essere-essendo-accadendo (Wild, 2002).
Partendo dalla descrizione del padre in cui spiegava più volte come aveva piantato il seme nella madre, dalle sue domande ripetute tante volte, insieme alle sue esperienze infantili, ha cercato dei criteri che gli permettessero di capire come quello strano seme potesse essere germogliato. Ha testato possibilità e probabilità. Durante questo processo ha vissuto diversi momenti critici grazie ai quali ha compreso sinergicamente la meraviglia della gravidanza. Ora, come è riuscito ad avanzare nella conoscenza se non ha potuto sperimentare con il seme o con il suo habitat, dato che tutto accade dentro sua madre e ha potuto solo apprezzare che suo fratello è cresciuto nel grembo e percepire i suoi movimenti interiori. Forse lo ha potuto vedere meglio quando gli è stata fatta un’ecografia, ma quella che ha visto è stata solo un’immagine, anche se straordinaria, più per i genitori che per lui, tuttavia come è riuscito a capire come sia entrato il seme? Quando è nato suo fratello, che ha cessato di essere un seme dopo nove mesi, ha potuto conoscere il suo aspetto, ascoltare il suo pianto, sentire il suo odore infantile, prenderlo in braccio, etc.
Durante questo processo di apprendimento, è altamente probabile che, mosso dalla curiosità infantile, abbia scoperto mammiferi gravidi, li abbia confrontati tra loro e con sua madre. Anche aver piantato un seme può essergli stato d’aiuto. In tutti i casi, ha azzardato delle ipotesi, che cercato di verificare. Questo processo è avanzato offrendogli risposte relative, ognuna mostrandogli qualche aspetto nuovo, che ha messo in relazione con i precedenti, a volte goffamente; altri, sinergicamente. Quando sarà un adolescente, l’irrequietezza causata dalla libido non lo farà stare tranquillo rispetto al processo di piantare il seme e vorrà essere un giardiniere a tempo pieno, il che lo porterà a riconsiderare sinergicamente tutto quanto sopra. Quando con la sua partner gesterà un nuovo essere, che tanto desiderano come espressione di realizzazione personale e di coppia, probabilmente ricorderà le sue deduzioni infantili e sorriderà. Non gli risulterà strano spiegare il mistero della gestazione a suo figlio proprio come i suoi genitori avevano fatto con lui; tuttavia, il nipote del nostro collega vivrà l’indagine in modo diverso, poiché il contesto sarà cambiato e come anche le risorse audiovisive, che magari saranno sotto formato di un ologramma molto più complesso di quello che abbiamo a disposizione oggigiorno, e che gli permetterà di delucidare su come il seme sia entrato nel grembo materno e si sia formata la sorellina.
È processo senza fine e la comprensione ne aumenta gradualmente la complessità. Va sempre da meno a più, anche se ci saranno molte occasioni in cui si ha l’impressione di tornare indietro e non di avanzare. Ed è in questi momenti in cui ci si confonde. Ciò che era chiaro ora è confuso. Questo momento del processo, che non ha luogo a scuola, perché viene rifiutato e punito, è una parte imprescindibile dell’apprendimento. Se uno studente non è entrato in confusione, possiamo sostenere che non abbia imparato bene, ma solo superficialmente. Forse l’unica cosa che conosce sono le risposte che lo hanno soddisfatto momentaneamente. Ogni momento di questo processo è importante quanto il successivo. C’è circolarità e non linearità. In ognuno di questi momenti e, anche durante tutto il processo, si procede dal possibile al probabile e al realizzabile. Non sappiamo cosa pensasse Marcos o come passasse da un’argomentazione all’altra nel corso di un mese, giorno e notte – magari lo ha anche sognato? – e forse non lo sapremo mai. Infatti, i neuroscienziati riconoscono di aver fatto molta strada per individuare dove e quando si verifica un processo, ma non sono riusciti a conoscere quello che una persona stia pensando.
In termini strettamente educativi, non importa se Marcos ha ragione o torto con le sue deduzioni, poiché ciò che ha valore sta nella sua capacità, che è propria di tutti i bambini e le bambine, di stabilire relazioni e generare schemi. Secondo il premio Nobel Herbert Simon “il riconoscimento di schemi è uno dei principali meccanismi di risoluzione dei problemi, se non il più importante” (Goldberg, 2007: 101). Per questo definiamo l’educazione come un processo di creazione di relazioni possibili. Al contrario, a scuola ciò che conta è che la risposta sia corretta, secondo i programmi di studio, poiché non c’è tempo per l’altro, quindi non può essere sprecato in domande che hanno un’alta probabilità di insuccesso. Per questo definiamo scolarizzazione, come un’educazione rinchiusa dalla formalizzazione scolastica quindi come processo di ripetizione di relazioni precostituite. La scuola governata da ciò che deve essere, da ciò che deve essere fatto, mentre l’educazione orientata da ciò che può essere, da ciò che è possibile che porta a ciò che è probabile e realizzabile (Calvo, 2011). “Lo scienziato non è una persona che dà risposte corrette, ma uno che pone le domande corrette” (Claude Levi-Strauss citato da Nowak e Highfield 2012: 174).
Scolarizzazione
La preoccupazione scolastica ha come disastrosa conseguenza il fatto che molto presto il bambino apprenda che sbagliare implica una sorta di sanzione, e ciò lo allontanerà definitivamente dall’apprendimento per il mero piacere di svelare misteri. Maritza Montero, psicologa venezuelana, ci racconta che sua figlia, all’età di tre anni, aveva creato l’avverbio “solitamente”[1] per poter spiegare ciò che la sua padronanza dello spagnolo non le permetteva di fare. Potremmo pensare che in classe verrebbe ripresa, ma in termini educativi possiamo notare come abbia risolto con ingegno una situazione apparentemente aporetica.
Non dimentichiamo che ai bambini non importa avere torto o ragione. Solo quando si comincia a punire i loro errori – se poi lo sono davvero dato che hanno sempre un valore relativo – si altera la tendenza ad imparare, sostituendola con la tendenza a compiacere. Con ciò si castrano le emergenze di infinite possibilità, che non vedranno mai la luce, poiché la loro occasione è unica e irripetibile. Proprio come quando ci viene in mente un’idea, che se non la scriviamo subito è andata persa per sempre. In questo modo copriamo con un manto di risposte sterili il desiderio che un altro mondo sia possibile.
Il bambino fin dalla nascita si muove, si gira, si contorce, gattona, si sostiene sulle mani e sui talloni per spingersi, afferra ciò che può per alzarsi, si lancia in avanti o all’indietro, si tiene in equilibrio, cade, si alza, inciampa, crolla finché non comincia camminare con aggraziata disinvoltura ed entusiasta autonomia, che occuperà gran parte dell’energia di coloro che vegliano sulle sue cure. Cammina e cammina, corre senza sosta e salta come un saltimbanco tutto il tempo, senza sosta. Se si fa male, si ferma temporaneamente, ma poi si rialza e torna a camminare e saltellare. Anche le ragazze cinesi a cui sono stati storpiati i piedi per renderli piccoli hanno continuato a camminare. Questa mutilazione fu praticata per molti secoli; oggi è vietata, però, di tanto in tanto viene denunciato che ancora viene praticata. La scrittrice Liza See, bisnipote del patriarca di Chinatown a Los Angeles ci descrive questo processo:
“Madre” – disse mia madre alla cognata – “stringi bene tua figlia”. Poi mi guardò, fece un cenno di incoraggiamento e disse: “Metti una mano attorno al piede in modo che tocchi l’altra mano, come se stessi strizzando un vestito”.
Mentre stringeva le ossa rotte di Orchidea, lei si contorceva dal dolore. La seconda zia la stringeva ancora di più […].
Ho fatto così. Ho attorcigliato le ossa verso il basso, concentrandomi così tanto che ho sentito a malapena le urla di mia cugina. Le mani ossute di Shao afferrarono le gambe della ragazza così forte che le sue nocche diventarono bianche. Orchidea ha vomitato dal dolore. Il vomito schizzava dalla sua bocca sulla tunica, sulla gonna e sul viso di mia madre. La seconda zia, imbarazzata, si scusò abbondantemente. Ho avuto un sussulto dopo l’altro, ma Madre non ha mai esitato […].
Ha poi bendato il piede su cui aveva lavorato. Fece quello che la Zia non aveva saputo fare: strinse tanto le bende. Orchidea non aveva più la forza di piangere, e tutto ciò che riusciva a sentire era la voce di mia madre e il debole fruscio della benda ogni volta che glielo avvolgeva attorno al piede, più e più volte, finché non usò dieci metri solo per un piede […].
Legandoci i piedi abbiamo vinto due battaglie. Noi donne deboli abbiamo sconfitto i Manciù. La loro strategia è fallita così miseramente che le donne manciù stanno ora seguendo l’esempio. Vedetele con le loro enormi scarpe brutte con minuscole piattaforme di legno per simulare le nostre scarpette di loto dorate. […] e la cosa più importante è che i nostri fiori di loto dorati continuino ad essere un’attrazione per i nostri mariti. (Vedi, 2008: 64-68).
Il piede – loto dorato, lo chiamavano – doveva essere ridotto a sette centimetri, sottile, appuntito, morbido, simmetrico e profumato, per evitare l’odore di putrefazione. Le bambine hanno imparato a camminare senza il naturale appoggio dei piedi, e questa camminata instabile era considerata elegante, femminile, persino erotica. Tuttavia, per quanto ci si abituasse e venissero giustificate queste pratiche, la loro camminata non si adattava alla cadenza dell’architettura corporea, allo stesso modo in cui l’apprendimento scolastico non fluisce quando l’innata propensione all’apprendimento degli studenti viene ridotta. È possibile per lo studente istruito continuare ad apprendere fluentemente una volta che la sua traboccante curiosità è stata repressa, o continuerà ad apprendere a singhiozzo come il passo instabile della cinesina?
La sola menzione di questa drammatica analogia mi sembra imbarazzante, ma non fallace, semplicemente perché la maggior parte degli scolari in varie parti del mondo sono mutilati nella loro propensione all’apprendimento, proprio come le ragazze cinesi dovevano avere i piedi di loto d’oro. Si insegna ad imparare nel modo sancito dalla scuola. Chi fa bene viene premiato, come in Cile accade con i migliori punteggi nazionali del PSU – un test di ingresso alle università cilene pubbliche e tradizionali – e viene ricevuto dal Presidente della Repubblica e dai rettori delle università, apparendo poi sui media.
Cosa succederebbe se li lasciassimo apprendere?
Clara Lazen, 10 anni e in quinta elementare, ha creato casualmente una molecola in grado di immagazzinare energia disponendo casualmente una combinazione unica di atomi di ossigeno, azoto e carbonio. È stato pubblicato un articolo scientifico in cui compare come co-autrice, insieme al suo professore (Humbolt State Now, 2012).
Richard Turere, un ragazzo Maasai di 13 anni, ha escogitato una soluzione per spaventare i leoni. Da quando aveva nove anni ha dovuto far pascolare il bestiame della sua famiglia. “Sono cresciuto odiando intensamente i leoni perché venivano di notte a mangiare il nostro bestiame, mentre noi dormivamo“. All’età di 11 anni, “, ho scoperto che i leoni avevano paura delle luci in movimento”, come quando qualcuno cammina con una torcia. Questo lo ha portato a ideare un sistema nuovo, semplice ed economico per spaventarli. Ha posizionato una serie di faretti a LED lampeggianti sui pali attorno al recinto del bestiame, rivolti verso l’esterno. Ha collegato le luci a una scatola con interruttori, e questa scatola a una vecchia batteria per auto che viene caricata da un pannello solare. Il sistema è stato progettato per lampeggiare a intermittenza così da far credere ai leoni che qualcuno stia camminando con una torcia. E ha funzionato. Per la gioia di suo padre e lo stupore dei suoi vicini, da quando Turere ha messo insieme i suoi Lion Lights, la sua famiglia non ha perso nessun animale a causa delle bestie feroci. Ancora più impressionante: Turere ha progettato e installato l’intero sistema da solo, senza aver ricevuto alcuna formazione in elettronica o ingegneria. “L’ho fatto da solo, nessuno mi ha insegnato. Mi è solo venuto in mente”, […] “Dovevo prendermi cura delle mucche di mio padre e assicurarmi che fossero al sicuro”.
Il notevole spirito del tredicenne è stato riconosciuto con un invito alla conferenza TED 2013 in California. Lì ha condiviso il palco con alcuni dei più grandi pensatori, innovatori e scienziati (CNN Vive la Noticia. 2013).
Pur non sapendo come fossero i processi che hanno permesso a Clara Lazen di creare una nuova molecola e a Richard Turere di escogitare quella semplice strategia per evitare la perdita del bestiame per mano dei leoni, oso pensare che siano il risultato di una sinergia tra osservazione ludica, focalizzata e dispersa allo stesso tempo, insieme all’instaurarsi di relazioni inconsce, per lo più, tra i vari stimoli. È altamente probabile che se non ci fosse un motivo potente, come la minaccia dei felini, o la presenza del professore, che si è accorto di una scoperta eccezionale, la scoperta di Clara e l’invenzione di Richard sarebbero andate perdute per sempre.
Manfred Max-Neef, – vincitore nel 1983 del Right Livelihood Award, considerato Premio Nobel Alternativo, e membro del gruppo di lavoro “Happiness: Towards a Holistic Development”[2], – anni fa mi disse che fa un pisolino tutti i giorni e che ha sempre con sé un taccuino dove annota ciò che gli capita durante la pausa o dopo essersi svegliato, perché se non lo fa, quell’idea va persa per sempre.
È qui che radica l’importanza del ruolo delle educatrici e degli educatori: essere attenti a ciò che scoprono i loro studenti per aiutarli suggerendo percorsi interpretativi. Questo è quasi tutto. Il resto è il complemento, ma non la cosa centrale. È lo studente che deve imparare scorrendo e non l’educatore che deve esaurirsi nell’insegnamento. Se in natura tutto scorre, perché l’apprendimento non dovrebbe fluire?